Con la vittoria di Donald Trump ha inizio l’incubo “post-turbocapitalista”. Sappiamo già chi pagherà il prezzo. Eppure le alternative per una società più egualitaria ci sono

di Riccardo Sacchi

6 novembre 2024 – «Abbiamo fatto la storia. È una magnifica vittoria che ci consentirà di rendere l’America di nuovo grande», urla Donald Trump dal palco di West Palm Beach quando il risultato delle elezioni non era ancora ufficiale.
Il 48,9% degli Stati Uniti d’America sono colorati del rosso amaranto tipico dei cappellini da baseball trumpiani, il resto ormai è diventato incolore vedendo il sogno della prima presidentessa donna e nera sgretolarsi fra le mani. Eva Longoria, attrice di Desperate Housewife, lascia gli Usa dopo l’elezione di Trump affermando che «L’America sarà un luogo da paura». Nel mentre il neopresidente Donald Trump, che entrerà in carico dal 20 gennaio 2025, promette di portare una nuova “età dell’oro” negli Usa e di fermare le guerre.
Ma come? E, soprattutto, a quale prezzo?

I democratici statunitensi di una volta non esistono più
Mentre Trump si gongolava per la sua rielezione, Kamala Harris era ammutolita. Il perché è semplice, la tanto temuta sconfitta del Partito Democratico – che dal post Obama non ha più brillato per il suo fascino sulle persone come un tempo – ha portato ad una definitiva rottura dell’estremo bipolarismo del sistema partitico statunitense. Lo scontro tra Democratici e Repubblicani è fondamentale per il sistema elettorale degli Stati Uniti. Dal 1852, questi due partiti hanno vinto ogni elezione presidenziale. Ma la rottura non è nell’apparenza, va molto più a fondo, fino alle ossa della struttura dei due partiti: i propri elettori.
Negli anni il profilo degli elettori democratici si è sempre più allontanata dalla storica working class, componente importante nell’elettorato democratico. La classe operaia
«ha abbandonato il partito Democratico», ha affermato Bernie Sanders, veterano dell’area sinistra democratica, sottolineando come «Mentre la leadership democratica difende lo status quo, il popolo statunitense è arrabbiato e vuole un cambiamento. E hanno ragione».
Sanders ha finalmente messo il punto sul problema: Harris è una candidata che non ha niente a che vedere con la working class e rappresenta la difesa del benessere già esistente. Quello di Harris è un ideale politico anacronistico all’esigenza di una classe operaia sempre più in crisi. La working class statunitense, impiegati in lavori manuali o di servizio, che non richiedono un alto livello di educazione e con salari medio-bassi ha visto una grande evoluzione negli ultimi anni.
Se tradizionalmente la working class era associata al Partito Democratico, grazie alle politiche pro-sindacali del XX secolo, negli ultimi decenni, una parte consistente si è spostata verso il Partito Repubblicano, attirata da messaggi populisti e conservatori. Federico Rampini, giornalista e saggista italiano naturalizzato statunitense, già nel 2017 durante il Festival dell’Economia di Trento aveva sottolineato come la «classe operaia bianca, che non si percepisce “povera” e che non ama essere definita working class, espressione che rimanda alla vecchia lotta di classe, si sente piuttosto “classe media”, perché in passato percepiva salari dignitosi».
Già alle elezioni presidenziali del 2016 la working class bianca si sentiva esclusa dal sogno americano e tradita dalla sinistra democratica, che si preoccupava più dell’ambiente che delle fabbriche che chiudevano. Dal 2016 al 2024 ne è passato di tempo e anche la classe operaia statunitense è cambiata. Sander evidenzia come la working class si sia ampliata, individuando come «adesso sono i lavoratori latinos, neri, e bianchi a essere working class».
Le problematiche strutturali di realtà multietniche sono state completamente dimenticate dalla sinistra democratica. Se i lavoratori bianchi si sentono esclusi dal sogno americano, gli operai latinos e neri vedono in Trump colui che proteggerà il benessere occidentale da loro tanto difficilmente guadagnato in un mondo capitalista e razzista. Un sentimento protezionista dello status quo e apparentemente illogico, prodotto dalle fattezze competitive e di prevaricazione generate da un capitalismo sempre più aggressivo, veloce e selettivo: il “turbocapitalismo”.
Un’altra problematica evidente come fattuale nella crisi del Partito Democratico statunitense è la mancanza di alternative che è stata data agli elettori statunitensi. Viviana Mazza scrittrice e giornalista per la redazione esteri del Corriere della Sera spiega che «i dati del voto popolare mostrano – le elezioni del 2024 rappresentano il terzo episodio in trentasei anni in cui un presidente repubblicano vince il voto popolare – che gli elettori di Donald Trump sono più o meno gli stessi (77.237.942 nel 2024 e 74.223.975 nel 2020) che votarono per lui quattro anni fa».
Kamala Harris invece ha ricevuto 74.946.837 voti, 6.336.664 voti in meno rispetto a Biden nelle elezioni del 2020 (81.283.501). Quindi, mentre Trump non ha mai perso il suo appoggio e – a fronte di una diminuzione nell’elettorato femminile che ha rivolto il proprio voto a Harris – ha guadagnato voti tra le minoranze e i giovani per ciò che ha promesso, la leader democratica ha visto una diminuzione dovuta alla vecchiaia e ripetitività dell’offerta politica.
L’analisi dei temi dei programmi elettorali rende ancora più evidente il “visto e rivisto” che caratterizza il Partito Democratico. Seguendo i comizi di Trump è evidente che lui puntasse su economia e immigrazione. Gli stessi temi che sono indicati come la priorità per l’elettorato statunitense dai sondaggi. CNN evidenzia come nell’ambito economico il focus dell’elettorato USA è il costo della vita, quindi il costo dei beni alimentari o dell’acquisto di una casa; tutte cose che sono diventate estremamente costose. Per quanto riguarda l’immigrazione, il tema gira attorno alla sicurezza e in particolare quella relativa al confine con il Messico. Il problema è percepito da molti statunitensi e latinos come collegato con l’immigrazione illegale. Gli Stati Uniti sono a favore dell’immigrazione ma la percezione è che provenga senza controllo o gestione da parte delle istituzioni.
Entrambi i temi sono ampi e non riguardano una singola amministrazione ma dato che l’amministrazione 2020/2024 è stata governata dal partito Democratico e la gestione di questi temi proposti da parte di Harris avrebbe seguito quella della vecchia amministrazione, ha portato gli elettori a votare per il tycoon.
Sfiducia nell’amministrazione uscente, un programma politico vecchio e stantio e l’incapacità di raggiungere i propri elettori, non hanno solo causato la sconfitta del Partito Democratico, ma una crisi ideologica sulla democrazia e sulle istituzioni statunitensi. Ricordiamo che Trump è colui che successivamente alle elezioni presidenziali nel 2020 sostenne brogli elettorali che sfociarono il 6 gennaio con l’assalto a Capital Hill. Quindi sfiducia nel meccanismo democratico e demonizzazione delle istituzioni. Bene, alle elezioni presidenziali 2024 Harris non è riuscita a dimostrare solidità nella democrazia degli Stati Uniti e soprattutto fiducia nelle sue istituzioni, una crisi ideologica con cui gli USA dovranno fare i conti nei prossimi quattro anni.

Chi ne pagherà il prezzo?
Purtroppo, la vittoria di Trump negli USA avrà un impatto sulla politica mondiale. Infatti, anche se il futuro presidente degli Stati Uniti non si è ancora seduto dietro alla scrivania della Casa Bianca, ha già messo in chiaro che intende ritrattare l’apporto statunitense nel supporto dell’Ucraina e, ancor più allarmante, minaccia di abbandonare la NATO. Sarebbe un’azione destabilizzante a livello internazionale che richiede dovute considerazioni a livello di governance interna ma sicuramente le parole di Trump svuotano del significato politico e minano la capacità operativa di un’organizzazione che da dopo la Guerra Fredda è sostanzialmente unita sotto la leadership statunitense.
C’è un sottofondo importante nel pensiero trumpiano sulla politica estera: una abnegazione della storica narrazione per cui gli Stati Uniti devono intervenire sui processi di integrazione globale sviluppatisi negli ultimi cinquant’anni, modificando l’infrastruttura fondamentale della globalizzazione. Sarebbe anche un pensiero condivisibile (quasi antiamericano) se non fosse che la visione trumpiana del mondo, figlia del turbocapitalismo, è la suddivisione in “vincenti e perdenti”. Non quindi un’idea di relazioni internazionali spinte all’ideale di mutuo aiuto e sostegno reciproco per il benessere a livello globale ma ciò che vuole mettere in moto Trump è un intervento che dovrebbe concentrarsi sulle catene transnazionali del valore – accusate di compromettere la sovranità statunitense, rendendo il paese vulnerabile all’influenza di altri attori e rafforzando il potere cinese, considerato il principale (e in alcuni aspetti unico) rivale strategico degli Stati Uniti – favorendo esclusivamente l’economia degli USA. Il panorama che ci si prospetta negli anni a venire si dipinge di guerre commerciali – ben più radicali di quelle del primo mandato trumpiano – dove non ci sono alleati, tutti sono avversari e dove dovrà uscire uno e un solo stato vincitore.
Rimane però in sospeso la questione della guerra in Medio Oriente. La posizione di Trump sulla questione del genocidio in Palestina è chiara: Israele, ha dichiarato il tycoon in un’intervista rilasciata a Fox News il 5 marzo 2024 «deve continuare per finire il problema», sottintendendo lo sterminio del popolo palestinese. Trump ha affermato più volte di non essere a favore di un cessate il fuoco e ha accusato l’amministrazione Biden di essere stata “morbida”, spiegando che, se lui fosse stato presidente, la guerra non sarebbe nemmeno incominciata. Dopo il risultato delle presidenziali, il presidente israeliano Benjamin Netanyahu, congratulandosi su Instagram, ha scritto «il ritorno storico (di Trump) alla Casa Bianca offre un nuovo inizio per l’America e un potente rinnovato impegno per la grande alleanza tra Israele e l’America». Israele vede nel futuro presidente USA un potente alleato con interessi in Medio Oriente. Trump, infatti, si è schierato a favore anche dell’allargamento regionale del conflitto verso l’Iran. In questi giorni di instabilità dove è caduto il regime di Assad in Siria, la Casa Bianca ha affermato che «il presidente Biden e il suo team stanno osservando attentamente gli eventi straordinari in Siria e sono in contatto costante con gli alleati nella regione». Immediatamente, attraverso un post su X il 7 dicembre 2024, il neoeletto presidente americano ha sostenuto che «Gli USA non hanno nessun interesse in questa situazione. Non è la nostra battaglia. Lasciamo che si svolga e non facciamoci coinvolgere». Una risposta, quella del tycoon, che mette in risalto come si sta attendendo per vedere che peso e influenza potranno avere altri attori regionali, a partire dall’Arabia Saudita. Quest’ultima era stata una nazione centrale nella diplomazia regionale della prima amministrazione Trump, grazie al genero di quest’ultimo, Jared Kushner, che per quell’amministrazione coprì la posizione di inviato speciale per il Medio Oriente. Un ruolo di influenza che lo portò a visitare ripetutamente l’Arabia Saudita e ad instaurare stretti rapporti, in particolare, col principe Mohammed Bin Salman. Un’amicizia consolidata e fruttifera, visto che alla fine del mandato di Jared Kushner il principe saudita autorizzò un investimento di 2 miliardi di dollari del fondo sovrano saudita nella holding di investimenti internazionali, la Affinity Partners, fondata da Kushner alla fine del mandato.

Il disegno mondiale di Trump
Sempre nel post su X del 7 dicembre 2024 Trump focalizza la sua attenzione sull’incapacità della Russia di fermare l’avanzata degli oppositori di Assad, essendo la Siria «un paese che (la Russia) ha protetto per anni». Trump continua attaccando l’altro ex presidente Dem: «Obama si è rifiutato di onorare il suo impegno di proteggere la linea rossa nella sabbia, ed è scoppiato l’inferno, con la Russia che è intervenuta. Ma ora sono, come forse lo stesso Assad, costretti ad andarsene, e potrebbe essere in realtà la cosa migliore che possa capitare loro. Non c’è mai stato un grande vantaggio in Siria per la Russia, se non quello di far sembrare Obama davvero stupido».
Il discorso sull’influenza Russa in Medio Oriente è stato ripreso da Trump alla caduta di Assad. Middle East Eye, testata giornalistica indipendente dal Medio Oriente e dal Nord Africa, riporta le parole del neopresidente USA: «Assad se n’è andato. È fuggito dal suo paese. Il suo protettore, la Russia, guidata da Vladimir Putin, non era più interessato a proteggerlo – aggiungendo che – non c’era motivo per cui la Russia dovesse essere lì in primo luogo. Hanno perso ogni interesse per la Siria a causa dell’Ucraina, dove circa 600.000 soldati russi giacciono feriti o morti, in una guerra che non sarebbe mai dovuta iniziare e che potrebbe continuare per sempre».
Sembra chiaro che gli USA, sotto la guida di Trump, vogliano disinvestire nel Medio Oriente (ad eccezione delle risorse strategiche come pozzi petroliferi e raffinerie di uranio) al fine di concentrarsi sulla guerra economica del prossimo secolo tra Cina e Stati Uniti nell’oceano Pacifico. Ma perché gli Stati Uniti allentino la presa sul Medio Oriente, deve fare un passo indietro anche la Russia. Per far in modo che la Russia allenti le sue mire di influenza in Medio Oriente serve che gli USA diminuiscano il sostengo all’Ucraina a favore di un maggior potere militare russo nell’area europea. Solo in questo modo gli Stati Uniti avrebbero il potere sia di influenza economica che geopolitica per far fronte al più grande conflitto tra i due colossi del nostro tempo, Cina e, appunto, USA, all’interno delle dinamiche del già citato turbocapitalismo.

E gli altri attori internazionali?
Che rimarrà della Siria? Ad oggi lo stato è in un processo di transizione che include la creazione di una nuova costituzione e lo svolgimento di elezioni libere, ma la complessità regionale dà spazio a ingerenze sia turche che israeliane. Sicuramente continuerà la resistenza delle minoranze curde e palestinesi contro i rispettivi oppressori.
L’Europa si trova in una situazione molto difficile. Le richieste USA su un maggiore contributo alla NATO impongono in teoria agli alleati europei di alzare la loro soglia dell’impegno e della cooperazione in ambito securitario. Inoltre, il mercato unico dell’UE è attualmente il più grande mercato del mondo sia in termini di popolazione (circa 450 milioni di persone) che di PIL (20% del PIL mondiale). La guerra tra USA e Cina avrà sicuramente diversi campi di conflitto e quello del mercato Europeo sarà uno di questi. Sia l’ambito securitario che economico ha visto i diversi paesi europei storicamente divisi, e spesso alla ricerca di relazioni alternative bilaterali, ridotte spesso a strizzare l’occhiolino allo Zio Sam. La strada che ci si prospetta sembra quindi sempre la stessa e soprattutto supportata dall’effetto domino che la vittoria di Trump potrebbe avere nel Vecchio Continente, offrendo legittimità e forza politica ai tanti soggetti della galassia nazionalista, antiatlantica ed eurofoba come Rassemblement National in Francia o Alternative für Deutschland in Germania.
L’Italia, profilandosi appunto come quelle entità nazionaliste sostenitrici dell’ideale trumpiano, ha già iniziato a stringere rapporti con il futuro presidente Donald Trump. Infatti, in un’intervista al New York Post al suo rientro dal viaggio a Parigi per la riapertura di Notre Dame il 7 dicembre 2024, Trump afferma di aver avuto un “grande” incontro con la premier italiana Giorgia Meloni, che ha descritto come una persona con “molta energia”. Come Andrea Stroppa, l’uomo di Elon Musk in Italia, sostiene: «l’Italia ha la rara opportunità di avere un rapporto speciale con gli Stati Uniti», evidenziando come il suo ruolo di collaboratore di Musk stia favorendo questa situazione.

Forse serve un’alternativa
Ma è il percorso giusto? Stiamo già sperimentando i primi risultati del turbocapitalismo. Un credo fondato nel mercato che vincola gli esseri umani nelle dinamiche di libero scambio competitivo e nel nichilismo consumistico. Chi è ricco è un vincente, chi è povero è un perdente. Il turbocapitalismo ci fa credere che bisogna avere fede nella crescita economica infinita in un mondo che infinito non è. Quindi fai credere al povero che è possibile diventare ricco quando questa possibilità non c’è, anzi ci sarà una fine di questo sistema e potrebbe essere una catastrofe. Ogni giorno ci stiamo avvicinando sempre più al baratro ma siamo troppo accecati dal benessere in cui viviamo per accorgercene.
Trump ha in mente di condurre la guerra più grande dai tempi dallo scontro tra l’aquila USA e l’orso URSS, ma questa volta è rivolta contro il dragone cinese e la declina come un intervento protezionista sulle catene transnazionali del valore a favore di una ed una sola economia, quella statunitense. Nessun altro godrà della vittoria USA o cinese perché corrisponderà anche alla sua sconfitta.
Forse allora il Partito Democratico USA e, in generale, i movimenti di sinistra nazionali e internazionali in tutto il mondo dovrebbero iniziare dallo sviluppo di un’alternativa economica per poter aver successo a livello politico. Una delle componenti della globalizzazione che può aiutare nella ricerca di alternative è la possibilità di studiare e osservare realtà differenti dalla nostra sfera occidentale. Per esempio, in Bangladesh nel 1983 è nata la Grameen Bank – la “banca per i poveri” – e con essa un’idea per far sparire la povertà. Il professor Muhammad Yunus, economo, impeditore e politico bengalese ha trovato il modo, accordando minuscoli prestiti agli ultimi – i più poveri – di fornire al 10% della popolazione bengalese (dodici milioni di persone) gli strumenti per uscire dalla miseria, e di trasferire poi la sperimentazione del microcredito dal Terzo Mondo ai poveri di altri paesi. La banca presta denaro, a tassi bonificati, solo ai poverissimi: in questo modo coloro che non possono ottenere prestiti dai tradizionali istituti di credito vengono messi nella condizione di affrancarsi dall’usura, di allargare la propria base economica e di prendere in mano il proprio destino. Questo è uno dei tantissimi possibili esempi che ci sono al di fuori della narrazione occidentale. Immaginiamo che la Grameen Bank sia un organo dello Stato italiano e che svolga attività di microcredito a 9,7% della popolazione italiana in povertà assoluta – 5,7 milioni di persone (dati Istat del 17 ottobre 2024). Immaginiamo che i soldi per fare questi prestiti provengano da una tassa aggiuntiva del patrimonio delle persone il cui patrimonio è superiore al milione di euro. Al 3 settembre 2024, secondo uno studio del Boston Consulting Group, ci sono 2.300 persone in Italia il cui patrimonio supera i 100 milioni di dollari (95.195.000 euro al tasso del 10 dicembre 2024). Se venisse applicata una tassa del 10% a queste persone lo Stato italiano avrebbe da investire in prestiti di microcredito 10 milioni di euro. Avremmo sconfitto la povertà in Italia. Possiamo definire questa manovra come “redistributiva”, che punta all’egualitarismo. A livello politico permetterebbe di nuovo di fare discorsi di welfare, di diritti collettivi e individuali, insomma una proposta politica che mette al centro le persone e non il capitale. Una proposta politica “di sinistra”. Adesso immaginiamo se ogni stato attuasse questa tipologia di manovre e collaborasse con gli altri perché ognuno raggiunga l’obbiettivo prefissato. Potremmo andare avanti così all’infinito.
Di possibilità ce ne sono, forse dovremmo solo imparare ad essere umili, vederle, apprendere e utilizzarle. Il mondo non deve andare per forza come ci hanno insegnato nel passato.