Dai promotori considerata una sentenza rivoluzionaria, dagli “addetti ai lavori” un nuovo problema da gestire, il riconoscimento del diritto all’affettività e alla sessualità negli istituti di pena rappresenta un passaggio fondamentale e inedito nella storia delle carceri italiane. Un diritto finalmente raggiunto, almeno sulla carta, ora alla prova del nove nella sua concreta applicabilità
Sembra una rivoluzione, una svolta storica, ed effettivamente lo è. Lo scorso 26 gennaio la Consulta, con la sentenza n. 10, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 della legge sull’ordinamento penitenziario, «nella parte in cui – recita testualmente la dichiarazione della Corte – non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia, quando, tenuto conto del suo comportamento in carcere, non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né, riguardo all’imputato, ragioni giudiziarie».
«Lo stato di detenzione – recita ancora la sentenza – può incidere sui termini e sulle modalità di esercizio di questa libertà, ma non può annullarla in radice, con una previsione astratta e generalizzata, insensibile alle condizioni individuali della persona detenuta e alle specifiche prospettive del suo rientro in società».
Quello che sembrava un muro incrollabile, un tabù immutabile, alla fine ha ceduto: il diritto all’affettività e (senza girarci troppo intorno) alla sessualità diviene dunque un diritto soggettivo assoluto e, per dirla con le parole della stessa Corte Costituzionale in una sentenza del 1987, «inquadrato tra i diritti inviolabili della persona umana». Ora, però, lo è anche per i detenuti; come si vedrà più avanti, non per tutti.
Una sentenza “storica”
L’aggettivo “rivoluzionario”, tuttavia, non deve ingannare. La storia, infatti, ci insegna che le rivoluzioni, anche se improvvise, sono sempre il frutto…..
di Matteo Picconi