Per mesi sotto i riflettori con l’avvento della pandemia, ad oggi gli istituti di pena sembrano nuovamente dimenticati dai media. Ne abbiamo parlato con Stefano Anastasìa, il Garante delle persone private della libertà per le regioni Lazio e Umbria
Stefano Anastasìa, nato a Roma nel 1965, sposato e padre di due figli, è Garante delle persone private della libertà per le Regioni Lazio e Umbria dal 2016 e dal 2018 Portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali nominati dalle Regioni, dalle Province e dai Comuni italiani.
Nel 1991 è stato tra i fondatori dell’associazione Antigone, di cui è stato Coordinatore nazionale (1994-1999), Presidente (1999-2005), Difensore civico (2008-2011) ed è attualmente Presidente onorario. Tra il 2005 e il 2006 è stato Presidente della Conferenza nazionale del volontariato della giustizia. Tra il 2006 e il 2008 Capo della segreteria del Sottosegretario di Stato alla Giustizia con delega all’Amministrazione penitenziaria.
Laureato in Scienze politiche nell’Università degli studi di Bari, insegna Filosofia e Sociologia del diritto nel Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Perugia. Tra i suoi principali interessi di ricerca la teoria dei diritti umani, le dinamiche del controllo sociale e il sistema penale. Tra le sue pubblicazioni L’appello ai diritti. Diritti e ordinamenti nella modernità e dopo (Giappichelli 2008), Metamorfosi penitenziarie. Carcere e pena nel mutamento sociale (Ediesse 2012), Abolire il carcere. Una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini (con L. Manconi, V. Calderone e F. Resta, Chiarelettere 2015), Populismo penale. Una prospettiva italiana (con M. Anselmi e D. Falcinelli, Cedam-Wolters Kluwer 2020). (www.regione.lazio.it)
Le carceri non sono un luogo “altro” della nostra società, non sono discariche umane entro le quali riciclare di tanto in tanto qualcosa (o qualcuno); sono vere e proprie comunità di persone che, si voglia o no, affrontano un periodo di detenzione finalizzato alla riabilitazione e al reinserimento nella società stessa. Affinché tale funzione sia espletabile, diviene cruciale l’incessante controllo e analisi di tutte le criticità che rappresentano un ostacolo a tale percorso riabilitativo dei detenuti, quali il sovraffollamento, strutture non idonee, personale insufficiente (da un anno e mezzo, anche l’emergenza sanitaria). Qui entra in gioco l’importantissimo ruolo svolto dai Garanti delle persone private della libertà personale, organismo statale relativamente giovane, fondato nel 1997 (ma pienamente operativo solo dal 2016), col compito di monitorare e redigere rapporti circa tutti i luoghi di privazione della libertà, dal carcere agli ospedali psichiatrici giudiziari. A più di un anno dall’avvento della pandemia, abbiamo incontrato Stefano Anastasìa, Garante per le regioni Lazio e Umbria.
Rispetto a un anno fa sembra registrarsi un lieve calo d’attenzione, da un punto di vista mediatico, rispetto all’emergenza sanitaria all’interno degli istituti di pena. Segno di una stabilizzazione nelle carceri o i media hanno semplicemente smesso di occuparsene come prima?
Purtroppo le carceri fanno notizia solo quando vi accadono tragedie o gravissimi incidenti, come le proteste del marzo dello scorso anno, quando in occasione della sospensione dei colloqui con i familiari più di quaranta istituti ne furono interessati. Durante la seconda ondata della pandemia, un po’ di attenzione, almeno a livello locale, è stata prestata ai ripetuti focolai che hanno interessato gran parte delle carceri italiane. Poi l’attenzione al carcere, come sempre, si è inabissata, ma i problemi restano tutti, dal sovraffollamento alla fatiscenza delle strutture, alle carenze di personale, aggravati dalle difficoltà gestionali di rigorose misure di sorveglianza sanitaria (le quarantene all’ingresso e in caso di positività, i colloqui con i divisori, le ripetute interruzioni delle attività scolastiche e trattamentali). Ma quello che preoccupa non è la disattenzione quotidiana dei media, ma quella della politica e delle Istituzioni, che dovrebbero occuparsi delle modalità di privazione della libertà e di esecuzione della pena non solo quando “fanno notizia”, ma quotidianamente, ciascuna per competenza, per prevenire tragedie e incidenti e per far corrispondere la detenzione in carcere agli obblighi costituzionali del divieto di trattamenti contrari al senso di umanità e di impegno per il miglior reinserimento sociale possibile dei condannati.
Prenda il caso della campagna vaccinale: si è dovuto aspettare fino a febbraio per il primo annuncio che essa avrebbe riguardato anche le carceri, dopo le prese di posizione dei garanti, delle associazioni e, soprattutto, della senatrice Liliana Segre, cui tutta la comunità penitenziaria deve per questo un caloroso ringraziamento. In tutti questi mesi non ci siamo mai stancati di dire che le carceri sono comunità residenziali ad alto rischio di diffusione del Covid-19, per via della convivenza di molte persone, senza il necessario distanziamento personale e condizioni igieniche adeguate, paragonabili solo alle residenze sanitarie assistenziali in cui hanno contratto il virus con esiti letali tanti nostri parenti e genitori. Eppure la diffidenza nei confronti del carcere e dei carcerati è arrivata fino al punto di “dimenticare” per mesi anche solo la necessità di programmare la campagna vaccinale per detenuti e operatori. Francamente, non so se nella storia dell’Italia repubblicana si era mai arrivati fino a questo punto.
La diffusione del virus ha chiaramente esacerbato una situazione già da moltissimi anni piuttosto critica e, a giudicare da quanto riportano gli addetti ai lavori, risulta che siano aumentati i reati e le violenze all’interno delle strutture: un dato reale e consequenziale all’emergenza sanitaria oppure non vi sono sostanziali differenze con la situazione precedente alla pandemia?
Salvo il momento critico dell’inizio del lockdown, che ha certamente inciso sulle statistiche di quelli che in gergo penitenziario si chiamano “eventi critici”, ivi compresi i danneggiamenti e le aggressioni al personale, non mi pare che la chiave interpretativa del periodo della pandemia in carcere possa essere quella della violenza o della commissione di reati, quanto piuttosto quella della paura, se non dell’angoscia, e della solidarietà. Solidarietà c’è stata tra detenuti e tra detenuti e operatori nell’affrontare i momenti più difficili, l’isolamento nell’isolamento e le ripetute emergenze dei focali interni. La paura per molti detenuti era conseguente al rischio di contrarre il virus in carcere, lontani dai propri familiari, dimenticati da Dio e dal mondo. Vivere in queste condizioni è stato difficile, è ancora difficile, e questo ha caricato di tensione la vita quotidiana dei detenuti e quella degli operatori, quelli “di sezione”, i poliziotti e le poliziotte che sono tutti i giorni i primi terminali delle loro richieste e delle loro sofferenze, e gli operatori sanitari, che sono stati sottoposti a un sovraccarico di lavoro appena alleggerito dal supporto degli operatori socio-sanitari messi a disposizione dal Governo attraverso la Protezione civile.
Matteo Picconi