Quarant’anni fa la ’ndrangheta assassinava il procuratore capo di Torino, Bruno Caccia, scomodo a molti perché intransigente custode della legge. Intervista al nipote Lorenzo Fracastoro. E due “misteri”
Doveva essere eliminato perché (a differenza di altri magistrati) era inavvicinabile, perché «peggio di Caccia per noi non c’era nessuno». Così lo avrebbe considerato il mandante dell’omicidio, secondo le dichiarazioni di uno dei collaboratori di giustizia ritenuti attendibili nei processi. Sono trascorsi quarant’anni dal delitto con il quale “il procuratore di ferro” (come lo avevano soprannominato alcuni suoi colleghi) è stato strappato alla vita, all’affetto dei suoi cari, ma la sua scomparsa e il tempo non cancelleranno mai il suo limpido esempio di uomo di grande onestà e rettitudine morale, di magistrato indipendente e riservato, di autentico e fedele servitore dello Stato e della Giustizia.
Domenica 26 giugno 1983, intorno alle 23,30, il procuratore capo della Repubblica di Torino, Bruno Caccia, 65 anni, veniva ucciso da sicari della ’ndrangheta nel capoluogo piemontese mentre, libero dalla scorta, camminava sul marciapiede di via Sommacampagna, vicino alla sua abitazione. Nel frangente dell’agguato stava portando a spasso il suo cane di razza cocker, come quasi ogni sera aveva l’abitudine di fare. Almeno due individui, a bordo di un’auto Fiat 128 verde (rubata un mese prima), lo attendevano per freddarlo a colpi di arma da fuoco: il magistrato, sebbene soccorso da un’autoambulanza, arriverà purtroppo già cadavere all’ospedale delle Molinette.
Marco Scipolo