Soraya Malek d’Afghanistan, nipote del Re riformista Amanullah Khan: «È in corso la tragedia del popolo afghano»
Ormai, da qualche tempo, i riflettori sull’Afghanistan si sono spenti e le drammatiche scene estive del ritorno al potere dei Talebani, del tentativo di fuga da Kabul dei civili aggrappati agli aerei, del sanguinoso attentato all’aeroporto, si sono sbiadite nella memoria col decorso dei mesi.
In Afghanistan, intere generazioni di donne e uomini non hanno mai conosciuto la pace. È un Paese lacerato, uscito dall’ennesima guerra, durata vent’anni. Iniziata all’indomani dell’attentato alle Torri Gemelle del 2001, avrebbe dovuto “esportare la democrazia” (sic!) ma, come tutte le guerre, ha lasciato sul campo centinaia di migliaia di vittime, attacchi terroristici, povertà e indigenza. Il costo della “missione” militare è stato, solo per l’Italia, di circa 8 miliardi di euro. E in quel Paese nel cuore dell’Asia non sono state “esportate” né pace, né democrazia.
Dopo i governi sostenuti dalle potenze occidentali – l’ultimo dei quali, tra l’altro, escluso anche dai cosiddetti negoziati di Doha – e il ritiro delle truppe Nato, è rinato l’Emirato guidato dai Talebani. E l’orologio della storia è tornato esattamente a vent’anni fa. Con le donne considerate alla stregua di oggetti, minoranze etniche perseguitate, nessuna prospettiva di un futuro per i giovani afghani e un Paese al collasso, la cui condizione è resa ancor più insostenibile dalla pandemia, con circa cinque milioni di profughi, tra sfollati interni e rifugiati.
Michele Turazza