Le regole servono per vedere gli altri o per volgere altrove il nostro sguardo?
Con quali occhi guardiamo alle norme giuridiche, soprattutto quando siamo chiamati ad applicarle? Se questa domanda suona un po’ strana è innanzitutto perché non siamo abituati a pensare che gli organi della vista abbiano un ruolo nel nostro accostarci alle regole con cui ordiniamo la nostra vita e le nostre relazioni. Eppure, essi hanno una funzione essenziale e decisiva, anche se compaiono quasi sempre attraverso la loro sottrazione.
L’idea che abbiamo della giustizia, infatti, fa talmente a meno dello sguardo che la raffiguriamo con una benda sugli occhi. Quella benda serve a dire che l’applicazione delle norme deve avvenire innanzitutto in maniera imparziale, senza farsi condizionare da interessi, conoscenze e convinzioni; e serve per dire anche che la decisione non deve essere influenzata da passioni e sentimenti: perché il diritto non può essere soggetto a ciò che pensiamo e sentiamo di volta in volta a seconda delle persone e delle situazioni con le quali ci troviamo ad aver a che fare.
Gli occhi, quindi, nelle decisioni assunte in base a regole, sono presenti appunto attraverso la loro assenza. Le regole, anzi, sono congegnate in modo tale che si possano concretizzare quanto più possibile senza richiederci lo sforzo di guardare alla realtà e alle persone verso le quali dobbiamo applicarle. Il modello perfetto dell’“applicatore di regole” è il doganiere della famosa scena del “fiorino” in Non ci resta che piangere: applica la regola che è chiamato a far rispettare in maniera rigida, uniforme, senza tentennamenti. E soprattutto, non guarda mai ciò che gli succede davanti: il suo sguardo è sempre rivolto altrove, come deve fare diligentemente chi “non deve indulgere a favoritismi” né rischiare di trattare in maniera differenziata i destinatari delle sue decisioni. E d’altra parte, a cosa serve guardare se, come spesso diciamo, o ci sentiamo dire, “non sono io che decido; così sono le regole”? La regola si applica come se fosse un automatismo.
Tommaso Greco – Università di Pisa