Con la scomparsa di Lorenza Carlassare, il nostro Paese perde un’insigne studiosa, sentinella del corretto esercizio del potere. Intervista al suo allievo Paolo Veronesi
Una mente libera, scomoda, pungente, come del resto dovrebbero essere tutte e tutti gli intellettuali; il suo era un impegno civile, culturale e umano, oltre che professionale. Severa con gli studenti, ma giusta. Refrattaria al mero nozionismo, ma intransigente sui principi. Era così, la professoressa Lorenza Carlassare, una vita spesa per la didattica, la ricerca, la promozione dei valori costituzionali, anche a costo di difendere, posizioni impopolari tra gli studiosi.
Ma la docente emerita aveva ben chiara l’essenza del costituzionalismo: una serie di limiti alle possibili (e assai probabili) degenerazioni del potere, da chiunque detenuto ed esercitato in un determinato periodo storico e contesto politico.
In tale limpida concezione, ritroviamo il filo rosso che accomuna la sua attività di studiosa. Riconosceva che «l’impalcatura dei [suoi] lavori [fosse] sempre e soltanto una: l’analisi critica del potere». Ammetteva di detestare il potere, ma di amare istintivamente «lo Stato di diritto e il costituzionalismo perché avverto che se è vero che il potere è necessario, è comunque importante ostacolarlo, limitarlo, tagliargli le ali».
La summa del suo pensiero è raccolta nelle sue “Conversazioni sulla Costituzione”, pubblicate da Cedam, testo accessibile ma rigoroso, dove smonta ogni interpretazione di “comodo”, ogni populismo, ogni citazione tendenziosa, parziale, delle disposizioni costituzionali. Nel titolo dell’opera, il suo approccio tipico, dialogico, di alta divulgazione, come nei cicli di lezioni organizzate a Padova, nell’ambito della Scuola di cultura costituzionale, da lei fondata e diretta fino al 2019.
Non di stancava di mettere in guardia gli studiosi dagli incessanti e gridati richiami alla “volontà popolare”, per giustificare ogni decisione delle maggioranze al potere. Nascondevano molte insidie, secondo Carlassare, che non perdeva occasione per soffermarsi sulla inequivoca formulazione dell’art. 1 della Costituzione e sul preciso verbo utilizzato, “La sovranità appartiene al popolo”: «il popolo non è solo la fonte di legittimazione del potere – spiega nelle Conversazioni – ma ne rimane l’effettivo titolare. Il verbo “appartiene” non è scelto a caso, ma dopo approfondita valutazione sostituito a “emana” (usato originariamente nel Progetto) che ha una ben diversa valenza: la sovranità, che dal popolo emana, si trasferisce ad altri, dei quali con l’elezione si legittima il potere. Dire invece che “la sovranità appartiene al popolo” significa che questo la conserva, significa escludere trasferimenti di potere, deleghe in bianco».
Michele Turazza