La figura di un politico fagocitato dalla carica di ministro dell’interno occupata in un periodo fra i più difficili dell’Italia del secondo dopoguerra
«Se alla fine di ogni legislatura si usasse tra i partiti, come fanno le società di calcio, mettere alcuni uomini in lista di trasferimento, e se tra questi ci fosse Scelba, noi cercheremmo subito di assicurarcelo con un buon ingaggio». Questa battuta, che si narra sia scappata a Giancarlo Pajetta in occasione della nascita, nel febbraio del 1962, del quarto Governo Fanfani, è indicativa di quanto i comunisti stimassero il politico democristiano in privato e di quanto lo disprezzassero in pubblico. Avevano compreso molto bene che l’allievo prediletto e segretario di don Luigi Sturzo aveva un peso decisivo negli equilibri del centrismo, oltre che un senso rigorosissimo dello Stato, stile “destra storica”.
Quando Mario Scelba, di cui quest’anno ricorrono i trent’anni dalla morte avvenuta il 29 ottobre 1991 a Roma (dopo i suoi funerali, svoltisi nella chiesa di San Gioacchino nel rione Prati, si scoprì che aveva destinato, in forma del tutto anonima, circa cento milioni di lire, i suoi risparmi di parlamentare, alla diocesi di Caltagirone), arrivò, il 3 febbraio 1947, al vertice del Viminale durante il secondo Esecutivo De Gasperi della Costituente, era il momento delle grandi scelte: ovest contro est, sistema capitalistico contro economia di stato. Quella di Scelba fu una nomina quasi causale, dovuta alle circostanze ed al buon lavoro svolto quale ministro delle Poste. Non trova invece riscontri la storia che il PCI l’avesse preferito ad altri, indicando il suo nome al presidente del Consiglio. Quel che è certo è che l’avvocato Scelba, nato il 5 settembre 1901 a Caltagirone, era stato un antifascista intransigente, che aveva difeso in appello Alcide De Gasperi quando lo statista trentino era stato arrestato nel 1927 con l’accusa di tentato espatrio clandestino.
Aveva conosciuto il Partito popolare prima dell’ottobre del 1922, aveva attraversato senza compromessi gli anni del regime dedicandosi quasi esclusivamente alla professione legale sino al 1943, anno in cui, sbarcati gli Alleati in Sicilia, aveva concorso a scrivere il primo documento programmatico della neonata DC. Arrivato quattro anni dopo al Viminale, l’avvocato siciliano portò avanti alcune idee chiare ed un attivismo inesauribile, mettendo il secondo al servizio delle prime.
Antonio Mazzei