Le cariche di via Tolemaide, la mattanza della Diaz, le violenze a Bolzaneto; le vicende processuali hanno restituito un po’ di giustizia ma i danni, come al solito, li pagano gli italiani
Mentre si scriveva questo articolo, le violenze commesse dalle Forze di Polizia a Genova sembravano lontane; un ricordo un po’ sbiadito. Dopo diciassette anni, anche l’Italia si era addirittura dotata di una legge per contrastare la tortura. Ma la cronaca ha riacceso i riflettori su un mondo ancora troppo oscuro. Dalle verità processuali sul G8 di Genova emerge una verità assoluta: a pagare non saranno i veri responsabili, bensì i cittadini. Milioni di euro di rimborsi che usciranno dalle nostre tasse, pagati perché qualcuno a tutti i livelli ha sbagliato. E l’unica forma di verità non processuale è stata rifiutata. Siamo ancora in tempo a pretendere un’inchiesta parlamentare?
I protagonisti
Genova, luglio 2001, il ventisettesimo vertice del G8 fu l’ultimo organizzato in una grande città. Il vertice si svolse regolarmente, ma non si potrà definire un successo, anzi. Un ragazzo morto e una città distrutta come l’immagine dell’Italia all’estero. Dei leader presenti all’epoca, solo uno ancora detiene il potere nelle sue mani: Putin.
«Già a Praga, Napoli (marzo 2001), Quebec City (al summit delle Americhe, in aprile), e infine Göteborg (15 giugno) prevalgono le frange violente del movimento – racconta su Limes il direttore responsabile Lucio Caracciolo – le quali catturano l’attenzione dei media, mentre le istanze dei popoli di Seattle finiscono nel cono d’ombra». Dal 20 al 22 luglio, a Genova, l’ombra divenne qualcosa di più; divenne fumo, incendio, sangue e urla. «Per i popoli di Seattle, – continua Caracciolo nel suo editoriale – Genova è la prova del fuoco. Come tutti i movimenti, hanno bisogno di contarsi. L’appuntamento è per la manifestazione di massa del 22 luglio, lanciata già a Porto Alegre. I gruppi italiani, raccolti nel Genoa Social Forum, puntano a più di centomila presenze. Vogliono essere tanti, essere popolo. Sfilare con bambini e carrozzine, in un corteo nel quale i genovesi si possano specchiare». Furono più del triplo, divise in migliaia di sigle e movimenti. Crearono una rete che si servì della tecnologia di consumo per realizzare una mobilitazione enorme. «Il Gsf era una rete di 7-800 nodi, anche i suoi cortei erano organizzati secondo una struttura a blocchi vicini ma separati, simili a una collana di perle unite da un esile filo. Ma da ciascuna perla si irradiavano a centinaia le telefonate e gli sms, e spuntavano decine e decine di obiettivi».
Antonio Sema, sempre su Limes, descrive in modo estremamente accurato i fatti e ci lascia anche dei suggerimenti. «Per la sicurezza e l’autodifesa di questa gente, probabilmente, non servivano i bastoni, ma bastavano persone bene identificabili dai manifestanti. Gente col volto scoperto, disarmati ma di buona volontà e di cuore fermo. Capaci, come chiedeva Nuto Revelli, di guidare con mano ferma lo scorrere del corteo e di opporsi con la sola fermezza dell’esserci alle scorribande delle tute nere o alle cariche delle forze del disordine».
Lorenzo Baldarelli
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