I fatti di Santa Maria Capua Vetere non sono un caso isolato. Il rafforzamento delle istituzioni democratiche passa inevitabilmente dalla punizione di chi sbaglia
Il 26 giugno è stata istituita la giornata internazionale contro la tortura; ormai quasi quaranta anni fa, il 10 dicembre 1984, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite adottò la Convenzione Internazionale contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti. L’Italia ratificò questa Convenzione due anni dopo, nel 1986.
Da quel momento non successe nulla per 31 lunghissimi anni. In che senso? L’Italia fino al 2017 non ha avuto nel suo codice penale, un codice che, ricordiamolo, seppur con qualche censura e qualche modifica, risale al 1931 (in piena epoca fascista), la previsione del reato di tortura. Per questa ragione, si diceva, non è successo niente. Perché seppure la ratifica della Convenzione ponesse il nostro Paese tra gli ordinamenti virtuosi che, in linea teorica, rifiutavano la tortura e tutti gli altri trattamenti crudeli, inumani o degradanti, nei fatti i procedimenti contro violenze subite, ad esempio, da persone detenute per le quali erano imputati membri delle Forze dell’Ordine, non potevano vedere le accuse rubricate sotto il giusto capo d’imputazione, la tortura, non esistendo appunto il reato.
Le resistenze, profonde e molto spesso passive, all’introduzione del reato di tortura, hanno purtroppo avuto per decenni motivazioni che molto poco hanno aiutato le diverse Forze di Polizia a scrollarsi di dosso un diffuso scetticismo sui loro operati. I detrattori dell’inserimento della previsione del reato di tortura nel nostro codice penale hanno parlato a più riprese di opporsi all’introduzione di limiti all’agire delle Forze di Polizia, di indebolimento dei loro poteri e di consegnare le istituzioni democratiche ai malviventi. Tuttavia chi commentava così, da alcune forze politiche ad alcuni sindacati di categoria, aveva smesso di tenere presente i principi alla base di uno Stato di diritto.
Se nei secoli la risposta penale si è evoluta da una risposta privata, che aveva tutti i tratti della vendetta, a divenire con il passaggio all’età moderna una prerogativa del potere pubblico, dello Stato, la ragione è stata proprio l’esigenza di garantire ai rei, presunti o certi, il rispetto dei propri diritti, sia nel processo che nell’esecuzione della pena. Il potere di punire è un potere intrinsecamente sbilanciato a favore di chi punisce, crea di per sé un’asimmetria di potere tra chi è in custodia e chi detiene la custodia della persona. È stato riconosciuto come un potere che può tristemente, e automaticamente, ingenerare violenza, anzi, è proprio in questa asimmetria di potere, che di per sé si genera una violenza, la quale deve perciò essere controllata. Gli argini che proteggono la persona, la sua dignità che rimane immutata e che tale deve rimanere anche nel caso in cui ci si macchi di un reato – per quanto odioso questo possa essere – non devono poter essere intaccati da alcuno per nessuna ragione. Questo insegnamento ci arriva dalla storia, anche non troppo lontana, delle atrocità commesse quando la dignità della persona ha smesso di essere considerata come bene supremo, inattaccabile, impossibile da mettere in discussione.
Carolina Antonucci