L’arresto del leader dell’opposizione al rientro dalla Germania ha scatenato un’ondata di proteste mai viste prima nell’epoca di Putin. Il caso Navalny suscita interrogativi sulla solidità del sistema di potere russo
«Prendere un tè con Putin può costare caro, ma almeno ti rende celebre» È quello che, se fosse un cultore della satira, Aleksey Navalny potrebbe pensare in questi giorni. In qualità di oppositore, Navalny ci ha provato e, rientrando in Russia, sapeva cosa lo avrebbe atteso. Si è sacrificato e ciò ha fatto di lui un eroe, colui che ha rischiato tutto per sfidare il potere.
Arrestato il 17 gennaio al suo ritorno dalla Germania, dove era stato ricoverato in ospedale a seguito di un avvelenamento al Novitchock (un agente neurotossico) – un tentativo di assassinio attribuito al Cremlino – avvenuto nell’agosto del 2020, Navalny è stato condannato all’inizio di febbraio, dopo un processo “espresso”, a tre anni e mezzo di reclusione in una colonia penitenziaria.
La sua storia lo ha reso famoso oltre i confini russi e il rientro in patria, dopo aver rocambolescamente scampato la morte, ha scatenato proteste mai viste nell’epoca del più duraturo presidente russo dell’era post comunista, Vladimir Putin.
Un epilogo di cui Navalny è sembrato paradossalmente padroneggiare ogni tappa. Subito dopo il suo arresto a Mosca, i suoi seguaci della Fondazione anticorruzione hanno diffuso un video di circa due ore nel quale Putin viene accusato di possedere un palazzo segreto sulle sponde del Mar Nero. E che palazzo. Una proprietà di 7800 ettari, 39 volte la grandezza del palazzo del principato di Monaco, con un casinò e vigneti annessi. All’indomani della sua diffusione, il video ha contato 21 milioni di visualizzazioni, e molte altre nei giorni successivi.
Nei fine settimana del 23 e del 30 gennaio, decine di migliaia di russi sono scesi in piazza per chiedere la liberazione di Navalny e denunciare la corruzione del regime. Queste manifestazioni sono state violentemente represse dalle forze dell’ordine e alla repressione hanno seguito migliaia di arresti. Le immagini delle violenze hanno fatto il giro del mondo, aumentando il clamore intorno alla storia di Aleksej Navalny e facendo emergere interrogativi sulla solidità del consenso interno di Putin.
Dal caso Navalny sono scaturite anche nuove frizioni internazionali. In risposta all’avvelenamento e alla detenzione del principale rivale russo dello zar Putin, gli Stati Uniti di Joe Biden hanno imposto sanzioni contro sette alti funzionari russi, tra cui il capo dei servizi segreti. Sanzioni già previste e poi sottoscritte anche dagli alleati dell’Unione Europea, alle quali la Russia aveva in precedenza risposto con le espulsioni di diplomatici di Svezia, Polonia e Germania.
L’attrito tra le due amministrazioni, almeno dal punto di vista diplomatico, ha visto toni decisamente forti. In un’escalation di dichiarazioni al vetriolo, Joe Biden è arrivato a definire Putin “un killer”. Le esternazioni del neo presidente americano sono successive alla pubblicazione, da parte dell’intelligence Usa, di un rapporto sulle elezioni del 2020, nel quale si afferma che la Russia avrebbe interferito al fine di danneggiare Biden in favore di Trump.
Ernesto Malatesta