In seguito agli scontri di piazza per il caso Ramy dalla maggioranza è arrivata la proposta di un rafforzamento delle tutele legali per le Forze dell’ordine; le considerazioni di un ex poliziotto
Scudo penale per i poliziotti nell’esercizio delle loro funzioni. Questa sarebbe la proposta del governo Meloni, anche se (nello stile di questo governo di annunciare i provvedimenti prima ancora di presentarli in Parlamento o al Consiglio dei Ministri, una vera e propria “strategia degli annunci”) ancora manca un testo scritto e, quindi, nessuna proposta concreta presentata. Si starebbe pensando, dunque, a una norma per garantire una sorta di impunità per gli appartenenti alle Forze dell’ordine che fanno un uso arbitrario delle proprie funzioni. Però è ancora tutto da vedere!
Il tutto sarebbe partito da alcuni recenti scontri tra manifestanti e Forze dell’ordine durante alcune manifestazioni di protesta. Scontri che, per altro, ci sono sempre stati nel nostro Paese, con conseguenze tali da non essere considerate del tutto drammatiche. Questioni fisiologiche in un Paese dove è garantita la libera manifestazione del pensiero. Per la verità, fatta eccezione per le manifestazioni contro il G8 di Genova del 2001 – dove le violenze (definitivamente accertate in sede giudiziaria) furono quelle della polizia contro i manifestanti e non il contrario – e per altre sporadiche occasioni, non mi risulta che le manifestazioni di piazza siano sfociate in conseguenze irrecuperabili. Ed ancora, quasi un anno fa a Pisa furono proprio i poliziotti ad usare violenza contro un manipolo di studenti che manifestava per la guerra in Palestina.
Ancora più recentemente, particolarmente cruente sono apparse le immagini degli scontri tra Forze dell’ordine e manifestanti che in varie città d’Italia chiedevano verità e giustizia per Ramy Elgaml, il giovane deceduto a Milano la notte dello scorso 24 novembre durante un inseguimento dei carabinieri. Una vicenda quest’ultima che, stando ad alcune indiscrezioni di stampa, appare piuttosto nebulosa e dove aleggia il mistero di un video che gli stessi carabinieri avrebbero fatto cancellare a un testimone. Per i carabinieri, il giovane sarebbe caduto dallo scooter, per i legali delle famiglie di Ramy e dell’altro giovane che, guidando lo scooter, non si era fermato all’alt, si è trattato di uno speronamento volontario.
Altro episodio che ha acceso la discussione, quello occorso la notte di capodanno in una località in provincia di Rimini, quando un giovane di origini egiziane, dopo aver accoltellato quattro persone, è stato ucciso da un carabiniere. Per questo episodio, il carabiniere è stato indagato per eccesso di difesa. Episodio, questo, stigmatizzato dalla premier durante la conferenza stampa di fine anno: «Ho chiesto all’Arma dei carabinieri di sostenere le spese della difesa del maresciallo Masini e intendo chiedere al generale Salvatore Luongo di conferire al maresciallo Masini un riconoscimento. Il maresciallo Masini è una persona che ha fatto il suo dovere».
Intorno a questi episodi, nei dibattiti e negli approfondimenti giornalistici, sono nati due schieramenti, due modi diversi di vedere la questione: c’è chi dice «io sto con gli agenti» e chi solleva legittimi dubbi su taluni comportamenti degli organi di polizia e sulla proposta del cosiddetto scudo.
Ho indossato la divisa (per la verità, più la tuta da volo) per trentaquattro anni e di questioni di polizia un po’ credo di saperne. Chi più di me, quindi, potrebbe stare dalla parte di coloro che indossano la sua stessa giubba? Sì, io sto dalla parte degli agenti. Lo sono sempre stato, dalla parte degli agenti, dei sovrintendenti, degli ispettori, dei funzionari, dei dirigenti di polizia che hanno fatto e fanno il loro dovere, rispettando la legge e i regolamenti. Io sto con gli agenti, perché so che sono capaci, ma quando i miei colleghi si sono posti fuori dalle regole, anche deontologiche, hanno trovato in me il loro più acerrimo nemico, perché la violenza che viene dallo stesso Stato o dai suoi rappresentanti è sempre da condannare.
Fare il mestiere del poliziotto è abbastanza complesso e non c’è dubbio, quando uno esercita funzioni di polizia è chiamato a rischiare, ma se durante l’esercizio delle sue funzioni finisce che qualcuno perda la vita, a quel punto non potrà essere l’autorità amministrativa, ovvero l’amministrazione cui appartiene, a fare da arbitro. Quel maresciallo dei carabinieri ha fatto certamente il suo dovere, ma se c’è un’ipotesi di reato commesso da un appartenente alle Forze dell’ordine, a stabilire se quell’agente ha agito per i motivi previsti dalla legge o meno dovrà essere inevitabilmente la magistratura, che in questo Paese è ancora libera, autonoma e indipendente.
Nessuno può essere o sentirsi al di sopra della legge e chi indossa una divisa deve sentirsi ancora di più obbligato alle leggi e ai regolamenti e se sbaglia non potrà certamente essere un’autorità politica o amministrativa – per quanto autorevole – a dichiararlo colpevole o innocente.
Si può davvero alzare un apposito scudo penale per le Forze dell’ordine? Io penso proprio di no, perché il principio che «la legge è uguale per tutti» resta ancora uno dei principi cardine della nostra Costituzione e, quindi, valido anche per i poliziotti e per i carabinieri.
Un provvedimento del genere – se mai sarà adottato – che riconoscerebbe, cioè, delle zone franche per i poliziotti, sarebbe un provvedimento illiberale, perché priverebbe i cittadini italiani delle più elementari garanzie liberali. E questo strumento legislativo che qualcuno sta pensando sarebbe uno strumento che manda un messaggio di impunità per alcune categorie di lavoratori. Allo stesso modo, anche altre categorie di lavoratori, come ad esempio i medici, potrebbero avanzare analoghe pretese. E se volessero uno scudo anche loro dove si andrebbe a finire?
Senza entrare nel merito degli episodi che ho elencato in epigrafe, i quali sono ancora oggetto di indagine, l’Italia non è forse il Paese del G8 di Genova, della caserma di Bolzaneto e della “macelleria messicana” della scuola Diaz e della caserma Raniero di Napoli di qualche giorno prima? Non è forse il Paese della straordinaria violenza di Stato messa in evidenza dalla vicenda di Stefano Cucchi, delle violenze, delle torture e degli abusi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere e di Trapani? Non è forse il Paese dove sempre più spesso la magistratura ha accertato gravi responsabilità a carico di appartenenti alle Forze dell’ordine passati dall’altra parte della barricata? Non è forse il Paese delle stragi impunite e dei depistatori di mestiere? L’Italia non è forse il Paese più volte condannato da organismi sovrannazionali per gli abusi e i maltrattamenti compiuti da appartenenti delle Forze dell’ordine su persone in stato di arresto? Non è forse il Paese dove si sta ipotizzando che in una questura si siano commessi gravi abusi su dei manifestanti fermati?
Spesso si dice che a commettere questi abusi siano delle “mele marce”. E allora, questi abusi – perpetrati dalle mele marce – continuiamo a farli accertare da un organo terzo, autonomo e indipendente come è la magistratura, perché quando è il controllore a controllare il controllato, c’è spesso da dubitare sulla sua fiducia.
Se poi si vuole davvero essere dalla parte degli agenti, piuttosto che creare delle zone franche per chi commette reati, sarebbe il caso di cominciare a pensare di retribuirli come la loro professione richiederebbe, li si formasse come la riforma del 1981 prevede, si garantissero meglio i loro diritti di lavoratori. Quanto ai rischi che corrono, il governo potrebbe pensare ad una forma di assicurazione collettiva, che li tuteli in caso di errore, ma non vada oltre, sarebbe pericoloso per la democrazia e per la libertà dei cittadini.
Da un Paese a rischio di illiberalità,
Paolo Miggiano.