La ricetta del Governo per rafforzare “a costo zero” la sicurezza degli istituti penitenziari e delle strutture di trattenimento e accoglienza per i migranti passa attraverso l’introduzione dei nuovi reati di rivolta e la previsione di pene più elevate: la cura proposta non solo è illusoria, ma è peggio del male. Una prima analisi sul DDL 1660
Le proteste nelle carceri sono sempre esistite e, come emerge dai c.d. prison studies, molteplici possono essere i fattori scatenanti (sociali, politici, strutturali, emergenziali, igienico-sanitari, ecc.). Spesso si tratta di forme di disobbedienza agli ordini (legittimi o illegittimi) impartiti dall’autorità ovvero di proteste pacifiche, che si estrinsecano in una mera resistenza passiva (scioperi della fame, battitura delle sbarre, rifiuto dell’ora d’aria, di ritornare nelle celle, ecc.). Nei casi più gravi, la conflittualità penitenziaria può sfociare in rivolte violente che, oltre a cagionare ingenti danni materiali, mettono in serio pericolo o ledono l’incolumità fisica e la vita delle persone ristrette e degli agenti penitenziari. Il nostro Paese ha conosciuto diverse stagioni di proteste e rivolte carcerarie. Paradigmatica è stata la stagione della politicizzazione degli scontri nelle carceri (tra gli anni ’60 e ’80 del secolo scorso). Numerose rivolte si sono avute anche durante la pandemia da Covid-19. Durante l’emergenza sanitaria, gli episodi particolarmente violenti, manifestatisi inizialmente presso la casa circondariale Sant’Anna di Modena, ed a seguito dei quali persero la vita 9 detenuti, si propagarono rapidamente in gran parte degli istituti di pena e riguardarono anche i centri di permanenza per i rimpatri (CPR). Dopo un periodo di relativa calma, la conflittualità penitenziaria è riesplosa durante l’estate, dilagando su tutto il …..
di Ivan Salvadori – Università di Verona