Il sistema regionale italiano nel suo complesso “tiene”, ma serve maggiore coordinamento tra i vari livelli di governo per una gestione efficace delle emergenze e risposte effettive ai bisogni delle persone
Michele Turazza
Pur previste dalla Costituzione del 1948, le Regioni sono entrate in funzione soltanto nel 1970, dopo oltre due decenni di “gelo costituzionale”, tra diffidenza e scetticismo. Esattamente a cinquant’anni da quel momento, il regionalismo italiano è messo a dura prova nella gestione della pandemia. È pertanto opportuno ripercorrere le vicende che hanno indotto il Costituente a prevedere una tale articolazione territoriale, interrogandosi anche sulle successive riforme e sulla tenuta del sistema nel suo complesso; a tal riguardo, Polizia e Democrazia ha incontrato un’esperta di Diritto regionale, la prof.ssa Ilaria Carlotto.
Ilaria Carlotto. Esperta in Diritto regionale e attualmente ricercatrice confermata in Istituzioni di diritto pubblico (abilitata per la seconda fascia in diritto costituzionale) presso l’Università degli Studi di Verona, dove svolge la sua attività didattica e scientifica, tenendo numerosi corsi.
I suoi interessi di studio spaziano dal diritto regionale alla giustizia costituzionale, dalla tutela dei diritti fondamentali al sistema dell’amministrazione condivisa. È autrice di varie pubblicazioni tra cui: “Il procedimento di formazione degli Statuti delle Regioni ordinarie” (Cedam, 2007), “Scritti in ricordo di Paolo Cavaleri” (Esi, 2016). È in corso di pubblicazione per i tipi della Esi il volume: “La ricerca delle proprie origini nel bilanciamento dei diritti”.
Professoressa Carlotto, per quali motivi il Costituente ha previsto un sistema regionale formato da Regioni ordinarie e Regioni con un particolare e più accentuato grado di autonomia, dette Regioni a Statuto speciale?
L’Assemblea Costituente, nel delineare la forma di stato, ha dovuto fare i conti con la realtà esistente all’epoca in alcune parti del Paese, dove, per ragioni geografiche, economiche, culturali, etnico-linguistiche, si erano già manifestate tendenze autonomistiche alle quali bisognava dare una risposta adeguata.
Per il resto, l’Italia si presentava come uno Stato unitario, per cui l’alternativa che si poneva era quella di procedere all’istituzione delle Regioni limitatamente ad alcune aree del territorio creando per il resto uno Stato unitario oppure estendere la regionalizzazione a tutto il Paese, istituendo ex novo le Regioni ordinarie che fino ad allora non esistevano.
La scelta finale di introdurre anche le Regioni ordinarie è stata dettata – oltre che dalla convinzione che la persona possa meglio realizzarsi all’interno di una pluralità di formazioni sociali – anche da ragioni prevalentemente politiche e, in particolare, dall’esigenza di creare nuovi centri di potere politico alternativi a quello che sarebbe risultato a livello statale a seguito delle elezioni nazionali i cui esiti erano ancora incerti.
Perché le Regioni ordinarie, pur previste nella Costituzione del 1948, hanno iniziato a funzionare solamente nel 1970, dopo così tanti anni?
Anche in questo caso le ragioni del ritardo sono di natura prettamente politica e legate a quello che viene definito “l’ostruzionismo della maggioranza”. Vi era, infatti, il timore da parte delle forze politiche al governo (e, in particolare, da parte della DC) che i partiti di opposizione si impadronissero della gestione di alcune delle Regioni ordinarie (le cosiddette “Regioni rosse”) dando prova di buon governo, il tutto con possibili ripercussioni anche sul piano nazionale. In altre parole, le ragioni politiche che avevano spinto per l’introduzione del sistema regionale furono anche quelle che, a contrario, ne ostacolarono poi la concreta realizzazione.
Al contempo, si deve ricordare che l’esigenza di ricostruire il Paese dopo gli eventi bellici, anche attraverso un massiccio intervento pubblico nell’economia, ha prodotto un accrescimento dell’amministrazione statale in parte incompatibile con il disegno regionale.
È stato perciò necessario attendere un cambiamento politico e ideologico, derivante dall’attenuarsi dello scontro tra i partiti in Parlamento, da una maggiore collaborazione tra i partiti di maggioranza e l’opposizione di sinistra, oltre che dalla volontà di accrescere la democrazia partecipativa per il tramite, appunto, dell’effettiva realizzazione delle Regioni ordinarie.
Quali sono state le tappe principali del processo di attuazione costituzionale con riferimento alle Regioni?
È chiaro che la sola entrata in vigore della Costituzione non era in sé sufficiente perché le Regioni ordinarie iniziassero concretamente ad operare, proprio perché erano enti che esistevano solo sulla carta e che necessitavano dell’approvazione di tutta una serie di leggi attuative, che sono state, tuttavia, introdotte solo a partire dal 1968.
In particolare, in quell’anno è entrata in vigore la legge per le elezioni dei Consigli regionali, che si sono svolte due anni dopo e, nel 1970, la prima legge sulla finanza regionale. Con legge ordinaria del Parlamento sono stati invece approvati, nel 1971, gli Statuti deliberati dai singoli Consigli regionali.
A queste leggi, sono seguiti i decreti legislativi del 1972 e del 1977 con i quali si è proceduto al graduale trasferimento delle funzioni amministrative, degli uffici e del personale dallo Stato alle Regioni.
Diverso, evidentemente, il discorso per le Regioni a Statuto speciale che, come si è detto, avevano iniziato ad affermarsi già prima dell’entrata in vigore della Costituzione.
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