Riccardo Saccotelli è un Maresciallo ordinario dei Carabinieri in congedo, attualmente presidente del Sindacato dei Militari. Sopravvissuto al terribile attentato realizzato da Al Qaida il 12 novembre 2003 a Nassirya, da oltre vent’anni sta affrontando una dura battaglia legale con i vertici istituzionali della Difesa, affinché sia fatta chiarezza sulle responsabilità di chi era alla guida di quella infelice “Operazione Antica Babilonia” in Iraq. Vent’anni nel corso dei quali Saccotelli si è rivolto, in più occasioni, alle massime autorità dello Stato, ministri e presidenti della Repubblica compresi, senza mai ottenere risposta. Abbiamo scelto di pubblicare la sua lettera, affinché le sue domande non continuino a rimanere avvolte nel silenzio

Gentile Redazione,
C’è un sistema carsico all’interno delle Istituzioni di cui non si deve parlare: il mondo del “bullismo di Stato”. Il 12 novembre 2003 ero all’ingresso di Animal House a Nasiriyah, in Iraq, quando esplose un camion carico di 4 tonnellate, cioè 4000 kg di esplosivo. Per immaginarlo, sto parlando di 50 volte l’esplosivo usato per l’attentato al giudice Paolo Borsellino. Avevo 28 anni. Credevo nel mio lavoro, nella giustizia e nella solidarietà sociale come strumento per raggiungere l’eguaglianza.
Nei processi emersero subito precise e circostanziate responsabilità che provocarono un evidente imbarazzo istituzionale. Per nasconderlo Nasiriyah andava dimenticata. Approvarono il lodo «salva generali» con cui lo Stato ha permesso che per i comandanti imputati il giuramento equivalesse a una sorta di immunità-impunità; per le vittime invece come un pesante macigno di sudditanza a vita: per una certa destra e per buona parte dei militaristi, se giuri fedeltà alla Repubblica devi stare zitto o te la fanno pagare. Non servitori ma obbedienti acefali.
Per questo non dovevamo essere considerati vittime di guerra. Perché per la sinistra italiana non eravamo servitori dello Stato ma occupanti mercenari al servizio di un governo di destra. Servi, appunto, privi di legittimazione. A quanto pare almeno su una cosa la pensavano esattamente allo stesso modo. Lo Stato doveva salvarsi la faccia ed adottò ogni possibile e tenace condotta, mettendo in campo tutte le misure necessarie per rendersi immune anche da possibili azioni giudiziarie. La vergogna fu coperta dalla legge. Le responsabilità politiche, pian piano, diventarono simmetriche. Che ministri di destra ci abbiano saputo fare, è storia; che ministri della difesa di sinistra (ed è già un ossimoro) si siano schierati in favore del potere e dell’autoconservazione, beh, questo per fortuna lo stanno giudicando gli italiani.
Scrivono i giudici: «Ma non può non essere ribadito, sul primo profilo, il vero e proprio preavviso di pericolo concreto contro le basi italiane in Nasiriyah (che seguiva un crescendo di allarmi ben riferiti in sentenza: cfr. in particolare pagg. 97-98 della sentenza d’appello, ma anche, amplius, tutto il §. 6, da f. 49 a 88, della sentenza di prime cure) dato dal “punto di situazione” del 5 novembre (noto all’allora comandante Bruno Stano), secondo cui un gruppo di terroristi di nazionalità siriana e yemenita si sarebbe trasferito a Nasiriyah, risultato ex post tragicamente veridico (vedi le dichiarazioni del terrorista Said Mahmoud Abdelaziz Haraz circa la base italiana scelta, quale obbiettivo dopo sopralluogo, per la sua palese vulnerabilità). Si devono allora ricordare anche i messaggi del Sismi del 23 ottobre (preciso per i tempi: un attacco ad un obbiettivo al massimo entro due settimane) e del 25 ottobre (preciso fin nei colori del mezzo: un camion di fabbricazione russa con cabina più scura del resto)». Insomma, la strage si poteva evitare.
Come premio per chi ci ha lasciati morire – e lo sapevano benissimo – una bella spinta in carriera sulle nostre vite ridotte ad una macelleria, i massimi onori di Stato, mantenuti e richiamati in servizio nei ruoli di vertice e a garanzia di….

di Riccardo Saccotelli